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Una rete europea per valorizzare la qualificazione dei formatori

Roma, 7 Ott – Nell’Unione Europea è aumentata l’attenzione alla prevenzione dei rischi sui luoghi di lavoro e alla formazione dei lavoratori con la Comunicazione della Commissione europea sul quadro strategico dell’UE in materia di salute e sicurezza sul lavoro (2014 – 2020) e con una Risoluzione del Consiglio che invita ad un una maggiore qualità e efficacia della formazione degli adulti…

 

Ricordiamo tuttavia che in ambito europeo è da diversi anni che la qualità della formazione alla salute e sicurezza è stimolata da una specifica rete europea: il progetto ENETOSH (European network education and training in occupational safety and health – Rete europea di educazione e formazione alla salute e sicurezza sul lavoro).

 

Del progetto ENETOSH si parla in una recente pubblicazione, realizzata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale dell’ Inail, dal titolo “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro tra idealizzazione e valutazione”. Una pubblicazione che il nostro giornale ha già presentato anche in relazione ai risultati della ricerca realizzata dall’Inail in collaborazione con l’Università degli Studi di Bergamo che ha permesso di identificare aree di competenza e indicatori per la valutazione della qualità di un formatore alla SSL.

 

Analizziamo oggi il progetto ENETOSH, una vera e propria “rete europea per la formazione iniziale e continua nell’ambito della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro”, e dunque un’ulteriore sostegno europeo per la valorizzazione della qualificazione dei formatori alla SSL.

 

L’idea di partenza della rete – supportata dalla Commissione europea fin dal 2005: ad oggi ne fanno parte 36 partner di 16 paesi europei compresa l’Italia – è che la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro “debbano essere parte integrante dell’apprendimento durante tutta la vita: dalla scuola dell’infanzia all’università fino alla formazione professionale continua”.

Ed infatti le attività della rete ENETOSH sono “orientate a promuovere:

– la qualità congiunta dell’istruzione e della formazione su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a livello europeo;

– l’ottimale integrazione della salute e sicurezza sul lavoro nel sistema di istruzione;

– la condivisione attiva delle conoscenze tra esperti nel campo della formazione e della salute e sicurezza sul lavoro”.

 

In particolare la piattaforma – raggiungibile all’indirizzo www.enetosh.net – raccoglie gli “esempi di buone prassi per la formazione iniziale e continua (oltre 400 esempi di buone prassi provenienti dall’Europa e dal resto del mondo), idee e metodi innovativi, forum di esperti del settore dell’istruzione e della formazione su salute e sicurezza sul lavoro, collegamenti di rete, temi di attualità, istruzione on line, eventi e altro. Si esplicano così le aree di intervento congiunto di esperti in materia e esperti della formazione nella scuola dell’infanzia, primaria, secondaria, formazione universitaria e formazione permanente secondo l’approccio del life long learning”.

 

Il documento Inail ricorda che le fasi operative seguite nel progetto hanno riguardato:

– “’analisi dei cambiamenti del mondo del lavoro e l’impatto sull’educazione e sulla formazione in materia di sicurezza e salute;

– la ricognizione di buone pratiche a livello nazionale ed europeo relativamente all’integrazione della salute e della sicurezza sul lavoro nel sistema educativo;

– lo sviluppo di criteri per l’analisi degli esempi di buone pratiche, attraverso il coinvolgimento di diversi gruppi di esperti appartenenti al mondo scolastico e professionale;

– l’analisi e la valutazione delle buone pratiche;

– la selezione dei modelli migliori, la raccolta di materiale aggiuntivo e relativa traduzione nella lingua inglese;

– la creazione di un portale per la condivisione e la consultazione delle buone pratiche e la documentazione raccolta”.

E per raggiungere questi difficili obiettivi non solo sono stati raccolti moltissimi esempi di buone pratiche, ma è stato elaborato un vero e proprio “standard di qualità per i formatori e gli istruttori nell’ambito della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro. La particolarità di questo standard consiste nel fatto che racchiude sia le capacità formative del formatore, sia le conoscenze nell’ambito della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro”.

Questo standard – consultabile tramite questo link – descrive in particolare i requisiti di cui deve “disporre un formatore/istruttore nell’ambito della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro. Per elaborare lo standard ENETOSH sono state descritte situazioni concrete sul luogo di lavoro e il comportamento che un formatore dovrebbe tenere in tali situazioni”.

 

Lo standard – riconosciuto da 14 diverse istituzioni di 10 paesi europei e “destinato ad assicurare la qualità di istruttori e formatori in Europa” – riguarda i seguenti “ambiti di competenza: formazione del formatore, sicurezza e salute sul lavoro, promozione della salute sul lavoro, gestione della SSL. Per ciascuna area di competenza sono state individuate le conoscenze necessarie, intese sia come conoscenze scientifiche che come conoscenze acquisite in base ad esperienze fatte, a cui corrispondono un pool di capacità descritte, comportamenti agiti e valutabili in aula”.

 

Inoltre – continua il documento Inail – sono state elaborate “check list dettagliate per ciascuna area di competenza (o comportamento manifestato); tali check list sono utili per valutare il livello di preparazione professionale dei formatori, le aree forti di competenza, ma anche quelle più deboli. Vengono quindi fornite indicazioni circa le competenze da sviluppare ai fini di un profilo professionale completo”.

La scala di giudizi e il corrispondente quadro di valutazione si definisce come “meta-quadro in quanto si propone come strumento comune di riferimento per facilitare la lettura e la comparazione delle diverse qualificazioni esistenti negli Stati membri dell’Unione europea”.

In particolare si esplica in “otto livelli di riferimento a cui vanno riferiti tutti i livelli di qualificazione continua e permanente (life long learning). In altri termini, vengono considerati i titoli e le certificazioni del sistema educativo e formativo formale (dalla scolarità di base obbligatoria alla formazione specifica continua post universitaria) e le qualificazioni acquisite in contesti non formali. Ciascun livello (detto livello QEQ) è costituito da una serie di indicatori o risultati dell’apprendimento intesi come insieme di conoscenze, abilità e competenze che il discente deve avere acquisito alla fine del percorso formativo di apprendimento”.

E secondo questo quadro di riferimento “le conoscenze corrispondono all’insieme di fatti, principi, teorie e pratiche acquisiti. Le abilità indicano le capacità di applicare le conoscenze e utilizzare il know how per svolgere compiti e risolvere problemi cognitivi o pratici. Le competenze indicano la capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità in varie situazioni di lavoro o di studio”.

 

Tutto ciò – conclude il documento – “permette di confrontare in un contesto europeo la qualità dei percorsi formativi nel campo della salute e sicurezza sul lavoro che il professionista docente/formatore eroga valorizzando la logica del miglioramento continuo della qualità del servizio fornito e della gestione e sviluppo della personale ‘cassetta degli attrezzi’”.

 

Per far conoscere e diffondere gli standard del progetto ENETOSH, diamo la possibilità ai nostri lettori di scaricare e visualizzare lo “Standard di competenza ENETOSH per formatori ed istruttori relativo alla sicurezza e alla salute sul luogo di lavoro”.

 

 

 

Inail, “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro tra idealizzazione e valutazione”, pubblicazione realizzata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale e a cura di Mauro Pellici, Cristina Dentici, Antonio Pizzuti, Cinzia Milana, Sara Stabile, Ghita Bracaletti, Enrico Lo Scrudato (INAIL – Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro ed ambientale) e Silvia Brena, Stefano Tomelleri e Ivo Lizzola (Università degli studi di Bergamo – Dipartimento scienze umane e sociali), edizione 2016 (formato PDF, 2.37 MB).

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ La qualificazione del formatore alla salute e sicurezza sul lavoro”.

 

 

Enetosh, “ Presentazione del networking attivo ENETOSH” (formato PDF, 367 kB).

 

 

Enetosh, “ Standard di competenza ENETOSH per formatori ed istruttori relativo alla sicurezza e alla salute sul luogo di lavoro”,  Ambito di competenza: formazione iniziale e continua (formato PDF, 103 kB).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

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SICUREZZA ALIMENTARE A NORMA ISO 22000

Il Consigliere Nazionale AiFOS Matteo Fadenti presenta la revisione 2018 della norma ISO che definisce i requisiti dei sistemi di gestione per la sicurezza alimentare

 

La norma ISO 22000 nasce nel 2005 con l’intento di armonizzare i differenti schemi HACCP con gli standard per la verifica della sicurezza igienica. I vantaggi nell’applicazione della ISO 22000 non sono diversi da quelli dell’applicazione di un’altra norma e nello specifico sono: realizzare un sistema di gestione della sicurezza alimentare realmente efficace che faccia sposare in modo corretto metodo HACCP e PRP; dimostrare ai clienti un serio impegno in materia di sicurezza alimentare; garantire che i prodotti e i servizi dell’azienda seguano uno schema riconosciuto in tutto il mondo (importante per chi esporta); aumentare la fiducia del cliente.

Le principali modifiche pubblicate il 19 giugno 2018 vanno a cancellare e sostituire la versione del 2005 e le aziende certificate avranno tre anni di tempo per adeguarsi alla nuova norma. La norma nasce a seguito di alcuni chiarimenti della Commissione Europea sull’applicazione dei SGSA (Sistemi di gestione della sicurezza alimentare) e dopo il parere scientifico dell’EFSA sull’applicazione di un sistema di gestione della sicurezza alimentare nelle piccole imprese.

Non a caso con la revisione, l’Organizzazione internazionale di standardizzazione mira a:

  • Chiarire concetti chiave che hanno causato confusione, quali i punti critici di controllo (CCP), i programmi di prerequisiti operativi (OPRP) e i programmi di prerequisiti (PRP).
  • Migliorare la leggibilità e l’usabilità dello standard
  • Garantire che lo standard sia rilevante per tutti gli attori della catena alimentare
  • Garantire che lo standard soddisfi le esigenze delle PMI
  • Aumentare la compatibilità di ISO 22000 con altri standard di sistema di gestione, adottando una struttura e una terminologia comuni.

Lo standard ISO 22000 è applicabile a tutte le attività che operano nel settore alimentare, indipendentemente dalle dimensioni o dal settore (sposando un po’ il concetto di semplificazione presente nel REG CE 852/2004 e nel codex alimentarius).

Al di la degli obiettivi da raggiungere, gli elementi chiave della ISO 22000 sono:

  • la comunicazione interattiva
  • il sistema di gestione
  • i programmi dei prerequisiti
  • i principi di analisi dei pericoli e definizione dei punti critici di controllo

Oltre a questi aspetti la ISO 22000:2018 si basa sui principi comuni ad altre norme ISO quali l’attenzione verso il cliente, la leadership e l’impegno e coinvolgimento delle persone. Anche la ISO 22000:2018 è stata concepita utilizzando la stessa Struttura ad alto livello (HLS) come negli altri standard ISO di sistema (es. ISO 9001:2015, ISO 14001:2015, ISO 50001, ISO 37001, ISO 27001, ISO 45001:2018), in modo che possa essere integrata nell’esistente sistema di gestione dell’organizzazione, ma allo stesso tempo per essere implementata da sola. La ISO 22000 ha infatti un fortissimo legame con il Codex Alimentarius e come obiettivi principali a quelli di migliorare la gestione dei rischi nella sicurezza alimentare e l’implementazione di un sistema che garantisca la produzione di alimenti (ma anche prodotti e servizi in campo alimentare) sicuri, salubri e conformi ai requisiti normativi.

Come detto quindi la revisione è stata necessaria per allineare la norma alle novità del Codex Alimentarius e dei pareri scientifici dell’EFSA nonché alle Comunicazioni della Commissione Europea sulla tematica (link), inoltre la ISO fornisce anche una nuova visione del concetto di rischio, distinguendo tra rischio a livello operativo e rischio a livello strategico di un sistema di gestione.

La nuova ISO 22000:2018 specifica i requisiti di un sistema di gestione della sicurezza alimentare (FSMS) per consentire ad un’organizzazione direttamente o indirettamente coinvolta nella catena alimentare di:

  1. pianificare, implementare, gestire, mantenere e aggiornare il sistema di gestione della sicurezza alimentare fornendo prodotti e servizi sicuri, in conformità con l’uso previsto;
  2. dimostrare la conformità ai requisiti legali e normativi applicabili in materia di sicurezza alimentare;
  3. valutare i requisiti di sicurezza alimentare reciprocamente concordati con i clienti e dimostrare la loro conformità;
  4. comunicare efficacemente le questioni di sicurezza alimentare alle parti interessate all’interno della catena alimentare;
  5. assicurare che l’organizzazione sia conforme alla politica di sicurezza alimentare dichiarata;
  6. dimostrare la conformità alle parti interessate rilevanti;
  7. richiedere la certificazione del proprio sistema di gestione della sicurezza alimentare da parte di un’organizzazione esterna, oppure effettuare un’autovalutazione o un’autocertificazione di conformità a questo documento.

Altro aspetto importante è che nello standard ISO 22000:2018 si rafforza il concetto del Risk-Based thinking, in particolare la nuova norma distingue tra rischio gestito a livello operativo attraverso il metodo HACCP e il rischio d’impresa a livello strategico del sistema di gestione. Identificare i rischi rappresenta un’opportunità al fine di raggiungere specifici obiettivi e prevenire i possibili effetti negativi. In maniera coerente con le altre norme di sistema, anche nella nuova ISO 22000, l’implementazione di un efficace sistema di gestione inizia con un’analisi del contesto che permetta di comprendere le esigenze espresse e non dei diversi stakeholders.

Da sottolineare come l’approccio della ISO 22000:2018 sia sempre basato sul ciclo PDCA, Plan-Do-Check-Act, ma nella nuova versione l’approccio per processi è organizzato secondo due livelli: il primo copre il frame generale del FSMS; l’altro livello copre i processi operativi all’interno del sistema di sicurezza alimentare. La comunicazione tra i due livelli è quindi essenziale.

Questo il link al sito ufficiale ISO dove acquistare anche la guida alla nuova versione https://www.iso.org/iso-22000-revision.html.

Pubblicato il: 03/08/2018

 

Fonte: aifos.it

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FORUM 81: PROMOSSO IL TESTO UNICO MA SONO ANCORA TROPPE LE CRITICITÀ SUL TAPPETO

Un resoconto dell’evento svoltosi a Napoli il 26 luglio presso la Città della Scienza su iniziativa dell’Associazione

Nella splendida cornice di Città della Scienza di Napoli si è svolto il 26 luglio 2018 l’importante Seminario sul tema “Forum81: il D.Lgs.n.81/2008 a dieci anni dalla sua entrata in vigore: criticità e prospettive”, organizzato da AiFOS con il patrocinio di Tecnici24 de Il Sole 24 Ore e di Campania New Steel. L’evento era particolarmente atteso in quanto il riacutizzarsi nel corso della prima metà del 2018 del trend infortunistico ha posto nuovamente al centro dell’attenzione i benefici e le criticità del “Testo unico” della salute e la sicurezza sul lavoro n. 81/2008, che com’è noto quest’anno ha compiuto il suo primo decennio di vita.

AiFOS ha voluto, quindi, realizzare un momento di riflessione e di confronto su questo tema così delicato, coinvolgendo esponenti del mondo accademico, scientifico, ispettivo e professionale; i lavori, moderati dall’Ing. Carmine Salamone, Consigliere nazionale AiFOS, hanno visto una buona affluenza di partecipanti che sono intervenuti molto attivamente e intensamente, tanto da far saltare la prevista pausa.

Ad aprire la prima sessione è stato il Prof. Mario Gallo, dell’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, che ha delineato il quadro dei principali punti di forza del D.Lgs. n.81/2008, enfatizzando concetto di “sicurezza organizzata” e la spinta verso il modello formativo universale; secondo il relatore debolezze importanti di questo modello “safety 3.0” sono la mancanza di una norma che renda obbligatoria la formazione anche del datore di lavoro (al di fuori dell’art. 34), un regime degli appalti con molte criticità, le troppe incognite del ruolo del RSPP e del CSE, l’assenza di un aggiornamento a “Industria 4.0” e i numerosi (troppi) provvedimenti attuativi ancora da emanare che rendono il D.Lgs. n.81/2018, ancora oggi un vero cantiere aperto.

L’Avv. Luigi Imperato, penalista e Professore aggiunto presso il Corso Superiore della Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, si è soffermato, poi, proprio sulle responsabilità penali del RSPP evidenziando l’esistenza di orientamenti della giurisprudenza non sempre condivisibili rispetto alla posizione di garanzia di questa figura, che per altro richiederebbero un’urgente rivisitazione del D.Lgs. n.81/2008.

L’Ing. Giuseppe Belardo, Direttore UOC Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro ASL Napoli 1 Centro, invece, ha tratteggiato il punto di vista ispettivo, mettendo in risalto tra l’altro il grave problema della carenza di una vera cultura della sicurezza e le ben note difficoltà della macchina dei controlli.

Proprio il tema della cultura della sicurezza è stato ripreso, poi, dall’Ing. Carmine Piccolo, Ricercatore dell’INAIL, che nel trattare il tema dell’efficacia della formazione ha fornito un quadro dei tanti ostacoli che ancora oggi sono presenti nella realizzazione di percorsi che conducano a comportamenti sicuri; il relatore ha messo anche in risalto le azioni messe in campo dall’INAIL per creare una vera cultura della sicurezza tra i giovani studenti.

La prima sessione si è conclusa con gli interventi dell’Ing. Ferdinando Carbone, Esperto nel settore sicurezza strutture ricettive, che he sottolineato l’importanza di un approccio diverso e più ampio alla valutazione dei rischi in tale contesto che comprenda anche le problematiche sismiche, e dell’Ing. Carmine Salamone, che ha presentato un’ampia casistica di incidenti, accaduti recentemente, che dimostra come ancora oggi, a un decennio dall’entrata in vigore del D.Lgs. n.81/2008, sia ancora radicato un approccio superficiale ai temi della sicurezza e l’assenza in molti casi di misure anche a tutela dei terzi (ospiti di strutture alberghiere, utenti, ecc.).

Come da programma la seconda sessione è stata dedicata alla tanto attesa tavola rotonda, moderata dal Prof. Mario Gallo, dove ai relatori si sono aggiunti l’Ing. Francesco Mazzeo, dell’Unione Industriali di Napoli, che ha posto al centro dell’attenzione il problema della responsabilizzazione del lavoratore, e il Dott. Amedeo Scilla, RSPP di Hitachi Rail Italy, che invitato a riflettere su alcune criticità della normativa che determinano non poche criticità operative per la figura del RSPP.

Come accennato, nella discussione – molto animata – sono intervenuti anche i partecipanti: l’orientamento generale che è emerso è che il bilancio decennale del D.Lgs. n.81/2008 è certamente positivo anche se la normativa andrebbe meglio armonizzata e ridotto il carico burocratico per le imprese.

L’intenso pomeriggio si è concluso con l’ultima sessione dedicata ai quesiti – terminata ben oltre l’orario di chiusura del seminario – da cui sono emerse numerose problematiche operative legate soprattutto alla formazione dei lavoratori e al ruolo del RSPP che, indubbiamente, in prospettiva si spera siano riviste dal legislatore.

Insomma, si può dire che il D.Lgs. 81/2008 deve essere promosso ma non a pieni voti in quanto vanno compiuti tanti altri passi lungo la strada della prevenzione, che si presenta sempre tortuosa e insidiosa, e in tal senso è sempre massimo l’impegno di AiFOS a diffondere la cultura della sicurezza a tutti i livelli.

Pubblicato il: 06/08/2018

 

Fonte: aifos.it

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La notifica di una violazione di dati prevista dal GDPR

Prima dell’entrata in vigore del regolamento generale europeo, l’autorità Garante nazionale richiedeva che venisse segnalata una violazione dei dati, solo quando tale violazione comportava dati biometrici, dati relativi al traffico telefonico e dati sanitari.

 

Il nuovo regolamento invece impone una generalizzata notifica all’autorità Garante nazionale, a fronte di una violazione di dati, sia di natura dolosa, sia di natura accidentale.

Occorre tuttavia leggere con molta attenzione l’articolo 33, perché la notifica non è necessaria, ove “sia improbabile che la violazione dei dati personali presenti per un rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche coinvolte.”

 

Appare evidente che, non appena pubblicato il regolamento, da più parti venissero avanzate delle perplessità sulla corretta interpretazione di questa esenzione di notifica. A fronte di varie interpretazioni, l’articolo 29 Working party, sempre prezioso elemento di guida all’interpretazione del regolamento europeo, ha pubblicato un documento, che analizza in dettaglio questi scenari e dà precise indicazioni sulle circostanze nelle quali sia o meno necessaria la notifica.

 

Il documento in questione, contrassegnata dal codice wp251, rappresenta pertanto una preziosa guida per tutti i titolari e responsabile del trattamento, circa le circostanze nelle quali la notifica, che comunque deve essere presentata entro 72 ore dalla presa di conoscenza della violazione stessa, deve essere presentata o meno.

Il documento in questione è accompagnato da una preziosissima tabella, che illustra alcune esemplificazioni, nelle quali possa essere obbligatoria o meno la notifica.

Ad esempio, uno dei casi che più spesso può verificarsi e che maggiormente preoccupa i titolari, fa riferimento alla perdita di una chiavetta di memoria USB, sulla quale siano archiviati dati personali di interessati, trattati dal titolare.

 

Il documento mette chiaramente in evidenza che, ove tali dati siano stati archiviati sulla chiavetta con protezione criptografica, la notifica non deve essere presentata.

 

Ancora una volta, ricordo a tutti i lettori che l’utilizzo allargato di tecniche di protezione criptografica rappresenta uno strumento di protezione dei dati personali, di costo ridotto e di efficacia straordinaria. Ancora oggi, non riesco a comprendere il motivo per cui i titolari e responsabili coinvolti non utilizzino su larga scala questa tecnica di protezione, il cui costo e la cui efficacia sono incomparabili, rispetto ad altre soluzioni.

 

Nel rimandare i lettori all’attenta lettura del documento in questione, riporto in allegato una sintetica tabella, che illustra appunto alcune classiche situazioni di perdita dei dati, che possono meno portare alla attivazione o meno delle procedure di notifica.

 

Allegato tabella riepilogativa (doc)

 

 

Adalberto Biasiotti

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

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Rischio cancerogeno: i dati sull’esposizione al rischio in Italia

Bologna, 27 Ago – Le esposizioni occupazionali a cancerogeni di oggi, come ricordato in un intervento al convegno “REACH  2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” (Ambiente Lavoro, Bologna 19 ottobre 2016), si prestano sempre meno a una chiave “in bianco e nero”. Una distinzione netta tra “esposti” e “non esposti” ovvero tra “professionalmente esposti” e “non professionalmente esposti” è “sempre meno adeguata a raffigurare la realtà”. E anche la stessa “definizione di gruppi omogenei per esposizione è oggi spesso difficoltosa ed ha un’utilità limitata finché non sia corredata da una stima della tendenza centrale e della dispersione dei valori che caratterizzano ciascuna aggregazione di soggetti”.

 

A ricordarlo e a cercare di fornire anche informazioni sulle dimensioni dell’esposizione in Italia ai rischi cancerogeni professionali è l’intervento “Il rischio cancerogeno con e senza etichetta: lo scenario, gli interpreti, le sostanze e la sostanza del problema”, a cura di Roberto Calisti (SPreSAL Civitanova Marche – ASUR Marche – Area Vasta 3).

L’importanza di valutare le esposizioni

Riguardo alla difficoltà nel comprendere le reali esposizioni, si indica che, ad esempio, che il titolo di mansione “asfaltatore di strade” ancora oggi va “certamente associato per default ad un’esposizione occupazionale ad IPA”. Ma “sappiamo anche che, per gruppi diversi di asfaltatori, misure di esposizione fatte in contesti diversi in momenti diversi, anche tutti recenti, hanno dato risultati molto diversi”.

E dunque per farsi un’idea preliminare utile del profilo di esposizione ad IPA di un asfaltatore ovvero di un gruppo di asfaltatori è ormai indispensabile “disporre di informazioni aggiuntive rispetto al mero titolo di mansione: ad esempio, avere qualche dato su quanti e quali IPA ci siano negli asfalti in uso, sapere se si asfalta all’aperto o in galleria, sapere se a fine a turno i lavoratori si fanno una doccia che rimuova l’imbrattamento cutaneo”.

 

In questo senso “una buona valutazione preliminare, qualitativa o semi-quantitativa che sia, è premessa necessaria affinché una successiva valutazione quantitativa (basata su stime e/o misure che sia) porti a conclusioni affidabili.

 

Tra l’altro non bisogna dimenticare che “il caratterizzare bene o male un’esposizione a cancerogeni ha importanti ricadute per i lavoratori esposti ed ex-esposti in primo sul piano preventivo, poi anche su quello medico-legale e in ogni caso sul piano etico”.

 

Le dimensioni dell’esposizione ai rischi cancerogeni

Il relatore si pone poi una domanda importante: “quanti sono gli esposti a cancerogeni in ambiente di lavoro oggi in Italia, a cosa esattamente sono esposti e ‘quanto’ lo sono”?

 

Per provare a rispondere ricorda che disponiamo di alcuni strumenti, benché “tutti parziali e gravati da limiti intrinseci di approccio”. Ad esempio:

  • “le stime del progetto europeo CAREX;
  • le stime di ISPESL/INAIL basate su fonti amministrative;
  • i dati dei registri aziendali di esposizione occupazionale ad agenti cancerogeni “ex art.243 D.Lgs.81/08”;
  • i dati dei flussi informativi “ex art.40 D.Lgs.81/08” (quelli che i medici di azienda forniscono al sistema pubblico riguardo ai lavoratori in sorveglianza sanitaria per specifici rischi occupazionali)”.

 

Si indica che, partendo dalle più recenti stime di CAREX, possiamo ipotizzare che “tra il 2000 e il 2003 nel nostro Paese ci fossero (trascurando le esposizioni di bassa probabilità e/o bassa intensità) circa 700.000 lavoratori professionalmente esposti alla radiazione solare e almeno 1.500.000 lavoratori professionalmente esposti a cancerogeni chimici; di questi ultimi:

  • circa 75.000 ad amianto (ne risultavano circa 350.000 alla precedente valutazione del 1990-1993);
  • circa 250.000 a quarzo;
  • circa 280.000 a polveri di legno;
  • circa 180.000 a benzene;
  • circa 160.000 a composti del cromo esavalente;
  • circa 120.000 a Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) di provenienza diversa dal fumo di tabacco passivo;
  • circa 110.000 a formaldeide;
  • e così via (chiaramente uno stesso lavoratore poteva risultare esposto a più di un cancerogeno ovvero a più di una classe di cancerogeni)”.

 

Mentre dal gruppo di ricerca ISPESL/INAIL (nella relazione sono presenti ulteriori informazioni, anche bibliografiche, su progetti, stime e dati) si sono avute “diverse stime mirate ad argomenti specifici”. Ne riprendiamo alcune:

  • con riferimento al periodo 1996 – 2010 “era stato valutato che nelle aziende obbligatoriamente assicurate presso INAIL vi fossero 39.230 lavoratori potenzialmente esposti a Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) in settori industriali selezionati”;
  • con riferimento al periodo 2000 – 2004, “era stato valutato che nei settori economici in cui erano stati riconosciuti casi di silicosi vi erano 28.712 lavoratori ‘potenzialmente ad alto rischio di esposizione a silice’”.

La relazione riporta poi altri studi sull’esposizione dei lavoratori cosiddetti “blue-collar” (“colletti blu”) riguardo al rischio di cancro polmonare e di cancro vescicale.

 

Inoltre sulla base dei flussi informativi “ex art.40 D.Lgs.81/08” analizzati dall’INAIL (dati desumibili dal sito dell’Istituto assicuratore) si desume che:

  • “nel 2013, in Italia, i lavoratori in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni erano 102.594 (86.688 maschi, 15.996 femmine): meno dell’1 % del totale dei lavoratori all’epoca in sorveglianza sanitaria;
  • al 2015 il quadro risultava alquanto cambiato perché, nel nostro Paese, i lavoratori in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni risultavano essere saliti a 330.312, praticamente il 2 % del totale dei lavoratori in sorveglianza sanitaria”.
  • Sempre dai dati “ex art.40 D.Lgs.81/08” emerge poi che, “nel 2015, i medici di azienda hanno particolarmente seguito i lavoratori outdoor esposti a ultravioletti da radiazione solare (144.245, quasi il 44 % del totale di quelli in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni), oltre a 38.200 professionalmente esposti a quarzo e a 17.147 professionalmente esposti ad amianto”.

 

L’immagine sfumata del rischio cancerogeno

L’immagine che emerge riguardo all’esposizione agli agenti cancerogeni – immagine “aggiornata” ai dati in possesso del relatore alla data del convegno – non è certamente esauriente: “ci fornisce una panoramica ‘sfumata’, priva di dettagli e contorni e soprattutto molto parziale (di certo sotto-stimante) riguardo a diversi cancerogeni importanti, senza dirci alcunché rispetto a molti altri”.

Ad esempio sembrerebbero “pressoché scomparsi dal tessuto produttivo italiano i professionalmente esposti ad IPA (asfaltatori compresi), amine aromatiche certamente o probabilmente cancerogene, N-nitrosamine certamente o probabilmente cancerogene, benzene, formaldeide, cromo(VI), nichel, cadmio, ossido di etilene, polveri di cuoio, pesticidi certamente o probabilmente cancerogeni, farmaci antitumorali certamente o probabilmente cancerogeni, turnazioni lavorative notturne non compensate, HCV, HIV”. Ma di certo non è così.

 

In realtà “sappiamo troppo poco, da un punto di vista epidemiologico e quindi anche prevenzionistico, anche su quanti sono ancor oggi professionalmente esposti a radiazioni ionizzanti”.

 

In definitiva, se alcuni dati sulle dimensioni del rischio cancerogeno professionale in Italia li abbiamo, è anche vero che “il gap informativo che dobbiamo colmare rispetto al rischio cancerogeno occupazionale e alle sue conseguenze patogene è ora perfino più vasto di qualche anno fa, proprio perché sono cessate molte attività di ricerca di parte sia privata sia, soprattutto, pubblica in tal senso”.

 

E – continua il relatore – se si vuole ridurre il carico di popolazione dei cancri di origine professionale “non dovrebbero esservi dubbi sulla necessità di impegnare il sistema sanitario pubblico del nostro Paese in un’operazione sistematica di identificazione e registrazione di quanti siano e come siano distribuiti i lavoratori esposti (ed anche solo potenzialmente esposti) a cancerogeni,  nonché di quali siano i loro scenari di esposizione (con una definizione adeguata di quali siano i profili temporali e le intensità di tale esposizione)”. Un’operazione che “va organizzata e sostenuta in maniera da coprire tutto il territorio nazionale, mantenersi e aggiornarsi nel tempo, essere sottoposta a processi di revisione e validazione”.

 

Concludiamo ricordando che la relazione, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta ulteriori informazioni su molti altri aspetti correlati al rischio cancerogeno, ad esempio sull’importanza di valutare se il rischio è presente nell’ambiente di lavoro e su cosa fare dopo averne riconosciuto la presenza.

 

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:

Regione Emilia Romagna, Inail, Ausl Modena, “REACH. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di vita e di lavoro”, pubblicazione che raccoglie gli atti dei due convegni “REACH  2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” e “REACH edilizia. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nell’ambiente da costruire e nell’ambiente costruito” (formato PDF, 13.34 MB).

 

 

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Sulla responsabilità per l’infortunio ad un lavoratore distaccato

Questa sentenza della Corte di Cassazione si è occupata dell’infortunio occorso a un lavoratore di un’impresa appaltatrice per il quale erano stati condannati dalla Corte di Appello sia il datore di lavoro dell’impresa committente che quello dell’impresa appaltatrice stessa già assolto quest’ultimo nella sentenza di primo grado. Pur configurandosi nel caso in esame, per la individuazione delle responsabilità per l’evento infortunistico, un campo di applicazione delle disposizioni emanate per la sicurezza negli appalti e subappalti, i giudici di appello avevano ritenuto che la situazione in esame fosse assimilabile a quella di un distacco del lavoratore in quanto benché questi fosse formalmente alle dipendenze dell’impresa affidataria era stato inviato ad effettuare lavorazioni presso il cantiere allestito dall’impresa committente.

 

La suprema Corte, condividendo le decisioni già assunte dalla Corte territoriale, ha ricordato in merito che, secondo un costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità che risale fino ai primi anni ‘90, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un’impresa ad un’altra, i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, che sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita. Ciò discende, in via principale, ha sostenuto la suprema Corte, dal disposto dell’art. 2087 del codice civile in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là di specifiche disposizioni, è comunque garante dell’incolumità fisica di coloro che prestano la loro opera nell’impresa, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente deve essere a lui imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 comma 2 del codice penale.

 

Tale orientamento della giurisprudenza del resto, ha aggiunto la suprema Corte, ha trovato del resto una valida conferma nella modifica normativa introdotta dal sesto comma dell’art. 3 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, il quale pur prevedendo a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, non ha escluso ed anzi ha imposto l’obbligo, a carico del datore di lavoro distaccante, di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato.

Il fatto e l’iter giudiziario

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato il datore di lavoro di un’impresa affidataria responsabile del reato di omicidio colposo con violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, concesse le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla contestata aggravante, lo ha condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione. La stessa Corte di Appello ha inoltre concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al pagamento di una provvisionale, determinata nella misura di 15 mila euro per ciascuna parte civile costituita, e ha condannato lo stesso imputato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili, da liquidarsi in separata sede. La Corte di Appello ha invece confermata la condanna resa dal Tribunale nei confronti dei responsabili dell’impresa committente condannati alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, per il medesimo reato, pena sospesa, con condanna inoltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede ed al pagamento di una provvisionale di complessivi 30.000 euro in favore delle parti civili costituite.

 

Agli imputati, era stato contestato di avere cagionato la morte dell’operaio che era precipitato cadendo da una pedana montata sulle forche esistenti all’interno del vano di corsa di un ascensore, per colpa generica, consistita in negligenza, imperizia e imprudenza, nonché, per violazione delle norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro. In particolare, erano stati individuati nei confronti degli imputati i seguenti profili di colpa specifica: quanto al titolare dell’impresa edile committente dei lavori, per avere violato l’art. 200 del D.P.R. n. 547/55, allestendo una pedana di legno, come piano di calpestio, montata sulle forche dell’ascensore, distante 47 cm dalle pareti della relativa cabina e, pertanto, per avere realizzato e messo a disposizione dei lavoratori un’attrezzatura non idonea e pericolosa per la sicurezza, in violazione dell’art. 35 comma 1 e 2 del D. Lgs. n. 626/94 e quanto al datore di lavoro dell’infortunato per avere, in violazione dell’art. 4, comma 2, lett. a) del D. Lgs. n. 626/94 in relazione all’art. 2, comma 1, lett. f-ter del D. Lgs n. 528/99, omesso di redigere il piano operativo di sicurezza con riferimento al cantiere di cui sopra, nonché per avere violato l’art. 22 del D. Lgs. n. 626/94, omettendo di fornire al lavoratore stesso una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza e salute in ordine alle proprie mansioni ed al proprio posto di lavoro, in relazione alle caratteristiche del cantiere.

 

Il ricorso in Cassazione e le motivazioni

Gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei rispettivi difensori, avverso la pronuncia di condanna, adducendo alcune motivazioni. Il datore di lavoro dell’impresa committente ha sostenuto che la ricostruzione operata dal giudice del Tribunale non era risultata aderente alle risultanze processuali in quanto dalle prove assunte nel corso della istruttoria era emerso che il cantiere era risultato provvisto di adeguate protezioni, essendo stato riconosciuto dallo stesso Giudice di primo grado l’esistenza di un fondamentale presidio idoneo ad impedire l’accesso al vano dell’ascensore (fissaggio dei parapetti, che precludevano l’accesso alla tromba dell’ascensore); la pedana adoperata dal lavoratore era, inoltre, inutilizzabile ai fini lavorativi, risultando comunque meno agevole rispetto ad altro strumento in dotazione (montacarichi esterno, che recava i materiali occorrenti in prossimità del piano di lavoro). I giudici avrebbero dovuto quindi, secondo lo stesso ricorrente, riscontrare l’esistenza di un comportamento abnorme del lavoratore, in grado di determinare l’evidente interruzione del nesso causale con i presunti comportamenti antidoverosi del datore di lavoro e pertanto doveva escludersi un’efficacia causale ad eventuali sue omissioni in relazione all’infortunio mortale occorso al lavoratore.

 

Il titolare dell’impresa affidataria e datore di lavoro e distaccante dell’infortunato, dal canto suo, già assolto dal Tribunale con sentenza appellata dal P.M., ha sostenuto che la Corte di Appello si sarebbe sottratta all’obbligo di fornire una motivazione rafforzata, mancando di esplicitare in modo più rigoroso e completo la motivazione posta a fondamento della decisione adottata di condanna, e che la stessa ha riformato ingiustamente la sentenza di assoluzione resa nei suoi confronti limitandosi ad accogliere le generiche lamentele del P.M.. Lo stesso ha evidenziato, altresì, che il Tribunale monocratico aveva correttamente escluso qualsiasi addebito colposo nei suoi confronti in quanto il lavoratore, solo formalmente suo dipendente, era stato “affidato” all’impresa committente, al fine di effettuare i lavori di copertura della guaina cementizia delle pensiline ubicate nell’edificio. L’effettivo datore di lavoro dell’infortunato e responsabile della sua sicurezza era pertanto nel caso in esame il titolare dell’impresa committente distaccataria.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenute infondate le motivazioni addotte e ha pertanto rigettato i ricorsi presentati.

 

Con riferimento al ricorso del datore di lavoro dell’impresa committente che aveva invocato il comportamento imprevedibile e abnorme del lavoratore infortunato la suprema Corte ha ricordato che è orientamento costante, in materia di infortuni sul lavoro, quello in base al quale la condotta colposa del lavoratore infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’evento, quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive di organizzazione ricevute. Pertanto, può definirsi abnorme soltanto la condotta del lavoratore che si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e sia assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni che gli siano state affidate. La condotta imprudente o negligente del lavoratore, quindi, in presenza di evidenti criticità del sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Corretta, quindi, è stata ritenuta dalla Sez. IV la decisione della Corte territoriale circa la mancanza nel caso in esame del carattere eccentrico ed esorbitante del comportamento del lavoratore infortunato.

 

Quanto alla posizione del titolare dell’impresa affidataria nonché datore di lavoro e distaccante dell’infortunato, correttamente i giudici di appello, secondo la suprema Corte, avevano ritenuto che la situazione fosse assimilabile a quella di un distacco del lavoratore in quanto benché alle sue formali dipendenze era stato inviato ad effettuare lavorazioni presso il cantiere allestito dall’impresa committente. Sul punto la Corte di Cassazione ha tenuto a ricordare che “secondo costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un’impresa ad un’altra, i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell’ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita”. Ciò discende, in via principale, ha fatto notare la stessa Corte, dal disposto dell’art. 2087 del codice civile in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là di specifiche disposizioni, è comunque garante dell’incolumità fisica di coloro che prestano la loro opera nell’impresa, con la conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo correttamente deve essere a lui imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40, comma 2, del codice penale.

 

Si tratta di un orientamento elaborato dalla Corte di legittimità, ha aggiunto la Sez. IV, sin dai primi anni ’90, e lo stesso è validamente sostenibile anche a seguito della modifica normativa introdotta dall’art. 3, comma sesto, del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, il quale, pur prevedendo a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, non ha escluso ed anzi ha imposto l’obbligo, a carico del datore di lavoro distaccante, di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato.

 

Nel caso in esame, ha così concluso la suprema Corte, il distaccante avrebbe dovuto attivarsi per verificare la sussistenza delle condizioni di sicurezza esistenti nel luogo di lavoro nel quale doveva operare il lavoratore distaccato e provvedere alla somministrazione delle dovute informazioni allo stesso in relazione alle condizioni di rischio ivi prospettabili.

 

Gerardo Porreca

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 24074 del 29 maggio 2018  (u.p. 27 febbraio 2018) – Pres. Dovere – Est. Bruno – P.M. Fimiani – Ric. C.G. e G.G… – In tema di prevenzione degli infortuni in caso di distacco di un lavoratore da un’impresa a un’altra i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro distaccante che sul distaccatario tenuti entrambi a garantire la sicurezza del lavoratore.

 

 

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Il delicato rapporto contrattuale tra titolare e responsabile del trattamento

È meglio chiarire subito un aspetto fondamentale: tutti i responsabili del trattamento, che erano stati designati in conformità al decreto legislativo 196/2003, devono essere inquadrati in un rapporto contrattuale completamente diverso, perché completamente diverso è il profilo del responsabile del trattamento, come illustrato nel regolamento europeo.

 

Non per nulla, si passa da un paio di righe del decreto legislativo ad un paio di pagine del regolamento europeo!

Cominciamo a dire che non vi è una significativa differenza tra il fatto che un responsabile del trattamento sia interno od esterno. Da qualche parte si è sostenuto che il responsabile del trattamento debba essere necessariamente un soggetto terzo, ma di questa ipotesi non vi è alcuna traccia nel regolamento e neppure nell’esame di questi profili, in altri paesi europei.

Cominciamo ad esaminare il caso di un responsabile esterno, vale a dire un soggetto terzo che offre servizi di trattamento dati ad un titolare.

 

I contratti che erano stati basati sulla precedente direttiva sulla protezione dei dati, la direttiva 95 / 46/EC, facevano riferimento ad una serie assai più semplificata di requisiti, dando poche indicazioni circa le responsabilità che incombono al titolare, che deve tenere sotto controllo l’operato del responsabile.

 

 

Con il nuovo regolamento il titolare e responsabile il trattamento sono entrambi coinvolti in possibili violazioni e possono essere soggetti a sanzioni oltremodo elevate. Basterebbe questa sola ragione per mostrare come un contratto già in essere debba essere profondamente rivisto.

In questa stessa ottica bisognerebbe esaminare in profondità non solo il rapporto che lega un titolare ad un responsabile, ma anche un titolare ad un altro titolare e perfino un contratto che lega contitolari. Questi accordi sono esplicitamente previsti al comma 1 dell’articolo 28, quando il titolare deve accertarsi di usare responsabili che offrano sufficienti garanzie di competenze e capacità nell’effettuare trattamenti nel pieno rispetto del regolamento. Ciò impone al titolare di esaminare in profondità il profilo del responsabile, per sceglierne uno che abbia le idonee competenze.

 

Ancora una volta, il problema della culpa in eligendo potrebbe ricadere sul titolare, che abbia scelto con troppa leggerezza il responsabile, cui ha affidato i preziosi dati personali, che l’interessato aveva dato in custodia al titolare.

 

Ricordiamo ancora una volta che un titolare è l’entità che determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali, mentre un responsabile tratta questi dati per ordine e conto del controllore. Questa impostazione mostra con chiarezza come il titolare debba prestare ogni cautela nel selezionare un responsabile avente sufficiente competenza.

 

Ancora una volta, non v’è dubbio che l’articolo 28 sia quello che meglio delinea i contenuti di un accordo per il trattamento dei dati. Ad esempio, questo articolo dice con chiarezza che il contratto deve:

  • indicare i soggetti coinvolti e la durata del trattamento,
  • la natura è la finalità del trattamento,
  • il tipo di dati personali coinvolti,
  • le categorie di interessati coinvolti,
  • le obbligazioni e i diritti del titolare.

 

Alcune considerazioni conseguenti prevedono, come è logico, che il responsabile del trattamento garantisca l’impegno di riservatezza dei suoi dipendenti, vale dire degli incaricati, da lui designati, e che assuma l’impegno a rispettare appieno le misure di sicurezza del trattamento, come illustrate nell’articolo 30.

Inoltre il responsabile non può fare riferimento a sub responsabili, senza che il titolare abbia dato una autorizzazione specifica per iscritto.

 

Il comportamento da tenere al termine del rapporto contrattuale può prevedere la cancellazione o la restituzione di tutti i dati, che sono stati trattati durante il rapporto contrattuale.

Altri aspetti che nel contratto devono essere messi in evidenza fanno riferimento alla gestione delle violazioni, che devono essere immediatamente comunicate al titolare, nonché altre clausole, afferenti a possibili salvaguardie in caso di applicazione di sanzioni.

 

Il fatto che il titolare sia obbligato a comunicare agli interessati, o comunque metter loro a disposizione l’elenco dei responsabili, cui i dati degli interessati sono comunicati, sta creando problemi e sorprese per molte organizzazioni.

Non so quanti lettori abbiano avuto occasione di leggere l’elenco completo dei responsabili, cui Paypal comunica i dati personali dei suoi clienti: stiamo parlando di centinaia di responsabili, sparsi in tutto il mondo!

 

Un altro approccio che merita attenzione è quello scelto dalla Microsoft, che pubblica sì l’elenco dei responsabili coinvolti, ma avverte che l’inserzione in elenco di un nuovo responsabile avviene almeno qualche mese prima dell’avvio del vero e proprio rapporto contrattuale. L’interessato ha così la possibilità di rendersi conto per tempo di quali soggetti verranno successivamente coinvolti nel trattamento dei suoi dati e potrebbe, ad esempio, decidere di ritirare il proprio consenso al trattamento.

 

Si tratta tuttavia di una situazione che non sempre le aziende potrebbero affrontare, per i ritardi organizzativi che essa potrebbe comportare.

 

Assai interessante invece è il fatto che il titolare del trattamento deve riservarsi la possibilità di effettuare dei controlli, degli audit, sull’attività svolta dal responsabile, per essere certo che egli si comporti correttamente. È evidente che una attività di questo genere, anche se piuttosto costosa per il titolare, potrebbe salvarlo da possibili penalità, in quanto permetterebbe di mettere in evidenza tempestivamente possibili anomalie del trattamento, oppure sarebbe prova di un comportamento oltre modo diligente da parte del titolare stesso. Come si vede, l’argomento è alquanto complesso e mi auguro che le linee guida offerte possano aiutare titolare e responsabile nello stipulare un equo contratto, con equa distribuzione delle responsabilità.

 

Adalberto Biasiotti

 

 

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Rinvio a giudizio per mancata formazione

I pubblici ministeri della Procura di Milano hanno concluso delle indagini sul grave infortunio mortale che il 16 gennaio scorso aveva provocato la morte di quattro lavoratori dell’azienda Lamia, Laminatoi Milanesi Nastri, nel quartiere milanese di Greco vicino alla ferrovia.

 

Uccisi dal gas argon, gas più pesante dell’aria, accumulatosi negli spazi confinati dell’azienda. Il fatto è tragicamente avvenuto seguendo – quasi da manuale – tutti i casi precedenti: nel forno era entrato un elettricista addetto alla manutenzione soffocato dalle esalazioni del mortale gas, due colleghi si calano nella fossa per cercare di soccorrere il primo e il terzo, non vedendoli risalire, si cala a sua volta. Muoiono tutti all’istante.

 

La notifica di conclusione delle indagini prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per omicidio colposo il legale rappresentante dell’azienda che risulta pure indagata come società in base alla legge 231/2011 sulla responsabilità amministrativa degli enti i cui modelli organizzativi non hanno prevenuto i reati commessi dai vertici nell’interesse aziendale.

 

Dalla ricostruzione fatta dai p.m. si rileva come all’interno dell’azienda Lamina, nel 1986, era stato installato un forno statico a campana alimentato a metano e utilizzava gas inerti, prima con l’azoto e poi con il gas argon. La lavorazione delle lamiere ad alte temperature richiede l’assenza di ossigeno che era stato, per l’appunto, eliminato con un gas inerte come l’argon. Il formo poggiava all’interno di una fossa rettangolare alta poco più di 2 metri e del volume di 55-60 metri cubi, senza ventilazione meccanica.

In questa fossa i periti, incaricati dai p.m., hanno accertato che l’aria al piano di calpestio cambiava la percentuale di ossigeno man mano che si scendeva nella fossa raggiungendo, al pavimento, il valore di appena lo 0,2% contro un valore normale del 20,08%. In questa fossa era stato collocato un sensore per misurare l’ossigeno posto all’altezza di 1,1 metro da terra. Questa altezza non consentiva di operare in sicurezza come è accaduto all’elettricista che, probabilmente, accovacciatosi, rendeva di fatto inutile questo sensore che non rispondeva ai criteri di sicurezza.

 

Al datore di lavoro viene addebitato di non aver valutato il rischio di anossia, mancanza di ossigeno, per contaminazione ambientale con l’ argon nel momento in cui l’azienda, nel 1992, aveva sostituito l’azoto con il gas argon. Un gas più pericoloso in quanto dotato di un peso specifico maggiore dell’aria e quindi tendente a stagnare alla base.

 

La mancata valutazione del rischio portava alla mancata predisposizione delle misure atte ad escludere o limitare il rischio compresa la necessità di fornire ai lavoratori una adeguata formazione sull’uso degli autorespiratori. Questi D.P.I., di cui ogni lavoratore deve essere dotato addestrato all’uso, permette di sopravvivere in ambienti privi di ossigeno. A ciò si aggiunga che i lavoratori erano privi di imbraghi di sicurezza che potevano aiutare il soccorso ed il recupero degli operai infortuni. Non era neppure presente un impianto di ventilazione in grado di poter riportare l’ossigeno ai livelli di sicurezza nonché un sistema di erogazione dell’argon che ne evitasse l’accumulo ed il deposito alla base della fossa.

 

Queste, in sintesi, le argomentazioni dei pubblici ministeri che hanno condotto le indagini alle quali ora (quando?) il tribunale dovrà aprire il processo.

 

Non compete, in questa sede, entrare nelle valutazioni della giustizia che, l’esperienza insegna, presenta tempi lunghi che, spesso, nei diversi gradi di giudizio arrivano anche alla prescrizione.

 

Le condanne (se ci saranno) devono essere certe, chiare ed esemplari. Purtroppo anche dopo l’emanazione del DPR 177/2011 sulla normativa per coloro che operano negli spazi confinati questo genere di infortuni si ripetono ciclicamente e tutti con le medesime caratteristiche. Troppe discussioni, argomentazioni, difficoltà applicative, lacci e lacciuoli che pervadono il mondo degli “spazi confinati” e poche azioni tese a favorire le buone prassi, una seria formazione poiché il problema non è l’applicazione formale della legge ma la sua sostanzialità: evitare gli incidenti e gli infortuni negli ambienti e negli spazi confinati.

 

La vera domanda da porci è quella di una seria valutazione del rischio e delle misure tecniche da applicare con una seria, e vera, formazione dei lavoratori. Gli strumenti sono già tutti previsti nel D. Lgs. 81/2008.

 

Quando nel 1992 l’azienda Lamina ha introdotto il gas argon è stata effettuata una nuova valutazione del rischio. In questo caso l’art. 29 del D. Lgs. 81/2008 è chiaro. Al comma 3 si prescrive che “la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata… in occasione di modifiche del processo di produzione o dell’organizzazione del lavoro”. Vi era tutto il tempo per effettuare una nuova valutazione.

 

Ma non finisce qui. Che fine ha fatto la riunione periodica annuale. Il comma 2 dell’art. 35 del D. Lgs. 81/2008 prescrive che nel corso della riunione il datore di lavoro deve sottoporre all’esame dei partecipanti:

  • Il documento della valutazione dei rischi, ovvero le modifiche e gli aggiornamenti.
  • I criteri di scelta, le caratteristiche tecniche e l’efficacia dei dispositivi di protezione individuale.
  • La formazione dei lavoratori.

Ma dove erano coloro che avrebbero dovuto partecipare alla riunione periodica e sottoscrivere il relativo verbale? Cosa ne sappiamo dell’azione del datore di lavoro ed il RSPP, del medico competente, del Rappresentante dei Lavoratori? Tutte domande che restano nebulose ed inevase.

 

Tornando al caso della Lamina viene da chiedersi se oltre, all’azione giudiziaria obbligatoria per legge non valga anche la pensa di conoscere questi aspetti che costituiscono la comprensione del fenomeno e capire chi ha fatto, o non ha fatto, che cosa? Dalle indagini dovrebbe esserci la possibilità di analizzare gli infortuni con il metodo dell’albero delle cause dal quale emerge come la sequenza degli eventi coinvolgono più fattori.

 

Vi sono alcuni fattori da approfondire. Da un lato è forse ora di smettere di parlare di “cultura della sicurezza” passando a “quale cultura della prevenzione”. Dall’altro lato sarebbe molto utile conoscere i passaggi delle cause di infortunio e delle relazioni ispettive per trarne insegnamenti sui comportamenti, dell’applicazione normativa e, soprattutto, delle omissioni. La lettura delle sentenze per capire, sempre di più e meglio, cosa bisogna fare e non è stato fatto.  Da questo punto di vista l’attività ispettiva può essere utile e valorizzata. Lasciando alla giustizia il compito delle colpe e delle sanzioni, può essere occasione di capire meglio le realtà per modificare ed attuare una seria opera di prevenzione.

 

Parafrasando Mao “colpirne uno per educarne cento” nel campo delle ispezioni non ha funzionato. Forse oltre all’infortunio mortale dove seguono accurate indagini (delle quali spesso non si sa come vanno a finire) le ispezioni riusciranno ad identificare altri due o tre aziende da sanzionare ma, altre 97 la fanno franca e non sono soggette a nessun controllo. Invertire questa tendenza aumentando il numero degli ispettori non è la soluzione o, meglio, si raggiungono risultati modesti ed insignificanti.

 

Serve un controllo sociale diffuso sulla prevenzione che coinvolga tutti i soggetti della sicurezza che, come abbiamo visto nel caso della Lamina, dove erano?

 

Rocco Vitale

Presidente AiFOS, docente diritto del lavoro all’Università di Brescia

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Nesso causale fra evento e omissioni in caso di sospensione dell’attività

E’ affrontato in questa sentenza della Corte di Cassazione il tema dell’applicazione o meno delle disposizioni di salute e sicurezza sul lavoro anche nel caso di una sospensione dell’attività lavorativa o nei momenti di pausa, riposo e quindi della permanenza del nesso causale fra l’accadimento di un evento infortunistico di un lavoratore e le omissioni di misure di sicurezza da parte del datore di lavoro la cui mancanza ha determinato l’evento medesimo. Nel decidere su di un ricorso presentato dai responsabili dell’azienda presso la quale operava il lavoratore infortunato e che avevano chiesto l’annullamento della sentenza emanata dalla Corte di Appello, la suprema Corte ha avuto modo di chiarire che la relazione causale tra la violazione delle prescrizioni dirette a garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro e gli infortuni legati al rischio che le prescrizioni violate avrebbero potuto eliminare sussiste indipendentemente dall’attualità della prestazione lavorativa e di conseguenza sussiste anche nei momenti di pausa, di riposo o di sospensione dell’attività stessa.

 

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione.

La Corte d’appello ha confermata la sentenza del Tribunale, appellata dal legale rappresentante di una società e dal datore di lavoro di un’impresa gestita dalla società stessa, con la quale questi erano stati condannati alla pena sospesa di sei mesi di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento del danno e al pagamento di una provvisionale, per il reato di lesioni colpose aggravate ai sensi dell’art. 590 commi II e III, in relazione all’art. 583 comma 1 n. 1 del codice penale, ai danni di un lavoratore dipendente, operaio addetto alle macchine industriali dell’azienda, per colpa generica e specifica, consistita quest’ultima nella violazione delle norme già contemplate nel D.P.R. n. 164/56 e attualmente recepite nell’art. 115 del D. Lgs. n. 81/2008.

 

In particolare, gli imputati avrebbero consentito nel caso in esame che il lavoratore infortunato si portasse sul tetto del capannone dell’azienda per allontanare una capretta che vi stazionava e per riparare alcune lastre, in situazione di pericolo di caduta dall’alto e in assenza di dispositivi di sicurezza, così cagionando la caduta dell’operaio da circa sei metri, a causa del cedimento di alcune lastre del tetto, con conseguenti lesioni personali gravi, consistite in un poli-traumatismo con indebolimento permanente del braccio destro e una malattia superiore ai quaranta giorni.

 

Avverso la sentenza ella Corte di Appello gli imputati, rinunciando alla prescrizione, hanno proposto ricorsi con unico atto e stesso difensore, sostenendo come motivazione principale che l’infortunio non fosse occorso in ambiente lavorativo in quanto lo stesso sarebbe salito sulla tettoia del capannone di sua iniziativa durante la pausa pranzo e che, pertanto, si sarebbe verificata nella circostanza una “sospensione dell’attività lavorativa e una sorta di blocco della normativa che regola lo svolgimento di essa”. I ricorrenti, inoltre, hanno sostenuto che le lesioni sarebbero state conseguenza di un incidente domestico così come lo stesso lavoratore avrebbe dichiarato, recandosi autonomamente al pronto soccorso dopo l’incidente essendo in grado di camminare e parlare.

 

La parte civile dal canto suo ha messo in evidenza che i giudici di merito avevano smentito che il lavoratore avesse agito d’iniziativa essendo emerso nel corso dei giudizi che lo stesso si era recato sul tetto perché richiesto dal datore di lavoro. Con riferimento poi alle prove testimoniali rese in tal senso dai testi della difesa la parte civile ha fatto presente, altresì, che il Tribunale aveva disposto la trasmissione degli atti al P.M., per quanto di competenza, e che gli stessi erano stati tutti rinviati a giudizio per il delitto di falsa testimonianza.

 

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

I ricorsi sono stati ritenuti inammissibili dalla Corte di Cassazione. La stessa, richiamando la sentenza di primo grado, ha ritenuto dimostrato che era stato il datore di lavoro ad accompagnare il lavoratore all’ospedale e che doveva escludersi, alla luce delle condizioni in cui il ferito versava, che fosse stato costui e non il datore di lavoro, preoccupato per le conseguenze dell’incidente occorso al proprio dipendente, a riferire di una caduta avvenuta tra le mura domestiche.

 

Con riferimento a quanto sostenuto dai ricorrenti in merito all’infortunio accaduto durante una sospensione dell’attività lavorativa la suprema Corte ha chiarito che “la relazione causale tra la violazione delle prescrizioni dirette a garantire la sicurezza degli ambienti di lavoro e gli infortuni che concretizzano i fattori di rischio avuti di mira dalle prescrizioni violate sussiste indipendentemente dall’attualità della prestazione lavorativa, e quindi anche nei momenti di pausa, riposo o sospensione dell’attività” per cui la stessa Corte ha ritenuta irrilevante la deduzione difensiva, a fronte della dimostrata esistenza del nesso causale tra la mancanza di misure di prevenzione relative al rischio di caduta dall’alto e l’incarico affidato al lavoratore, seppur addetto ad altra mansione e durante la pausa di sospensione dell’attività lavorativa. L’incarico affidato al lavoratore, peraltro secondo la Sez. IV, non poteva neppure considerarsi eccentrico rispetto all’attività lavorativa che si svolgeva nella stessa azienda in cui si trovava il capannone interessato dalla presenza dell’animale.

 

All’inammissibilità del ricorso è seguita quindi, a norma dell’art. 616 del codice di procedura penale, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che ha liquidate in 2.500 euro con accessori come per legge.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 33416 del 18 luglio 2018  (u.p. 7 giugno 2018) – Pres. Ciampi – Est. Cappello – P.M. Fodaroni  – Ric. A.P. e I.L.. – La relazione causale tra la violazione delle prescrizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro e gli infortuni legati al rischio che le prescrizioni violate avrebbero potuto eliminare sussiste anche nei momenti di pausa e di sospensione dell’attività.

 

 

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Torna Inform@zione, il concorso nazionale dei prodotti per la formazione alla salute e alla sicurezza sul lavoro20/07/2018 Torna Inform@zione, il concorso nazionale dei prodotti per la formazione alla salute e alla sicurezza sul lavoro

Giunta all’XI edizione, la rassegna biennale promossa dall’Inail, l’Ausl di Modena e l’assessorato alle Politiche per la Salute della Regione Emilia Romagna punta a diffondere la cultura della prevenzione. Scade il 15 settembre il termine per partecipare

BOLOGNA – Manuali, opuscoli, depliant, ma anche video, dvd, siti web e applicazioni: sono molte le alternative possibili per partecipare all’XI edizione di Inform@zione, la Rassegna/Concorso nazionale dei prodotti per l’informazione e la formazione alla salute e alla sicurezza sul lavoro. L’invito a prendere parte all’iniziativa, promossa da Inail, Ausl di Modena e Regione Emilia Romagna e gestita per l’Istituto dalla Direzione regionale Emilia Romagna, in sinergia con la Direzione centrale prevenzione e il Dimeila, è rivolto, tra gli altri, ad aziende sanitarie, enti pubblici e privati, scuole, organizzazioni sindacali, imprese, consulenti e a tutti i soggetti in grado di produrre materiali utili a diffondere la cultura della sicurezza sul lavoro. Quest’anno, in occasione dei suoi vent’anni, la rassegna, che si svolge ogni due anni, è aperta anche agli editori che avranno un premio speciale dedicato a loro.

I requisiti previsti dal regolamento. I lavori, cartacei o multimediali, da inviare entro il 15 settembre, devono essere originali ed efficaci dal punto di vista della comunicazione ed avere una buona qualità tecnica, come richiesto dal regolamento pubblicato sul sito del concorso. Per quanto riguarda i contenuti, devono essere coerenti con le tematiche promosse in questa edizione del concorso: la salute e la sicurezza negli ambienti di lavoro in presenza di sostanze pericolose, tema della campagna europea Osha 2018-2019, la sicurezza stradale e la prevenzione nell’alternanza scuola-lavoro.

La premiazione a ottobre al Salone Ambiente e Lavoro di Bologna. La commissione che valuterà i materiali inviati è composta da esperti del settore Ssl, membri di associazioni datoriali e sindacali, rappresentanti del mondo accademico e degli enti promotori ed esperti di comunicazione. La cerimonia di premiazione si terrà durante un convegno nell’ambito del XVIII Salone della Salute e Sicurezza nei luoghi, Ambiente e Lavoro, in programma a Bologna dal 17 al 19 ottobre prossimi, dove sarà allestita anche un’area per esporre tutti i lavori dei partecipanti.

 

Fonte: inail.it

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Progetto Sicura-mente, il 31 luglio tappa al teatro greco di Tindari

Una tavola rotonda, uno spettacolo e un concerto serale con la partecipazione di Mogol rilanceranno i temi dell’informazione e dello sviluppo della cultura della prevenzione per la figura dei Rls in edilizia e agricoltura nell’ambito del progetto “Sicura-mente”

ROMA – Sarà l’Antico Teatro Greco di Tindari a Patti, in Sicilia, a fare da prestigiosa cornice il prossimo 31 luglio a un triplice evento serale, che si inserisce nel contesto dell’accordo di collaborazione per la realizzazione del progetto “Sicura-mente”, siglato nel gennaio scorso dall’Inail – Direzione centrale prevenzione e dall’Associazione nazionale consulenti e responsabili sicurezza sul lavoro (Ancors). La serata, che segue a distanza di poche settimana l’incontro di avvio del progetto svoltosi a Catania lo scorso 6 luglio, avrà inizio alle 19 con una tavola rotonda, che sarà aperta dai saluti istituzionali del sindaco di Patti, Giuseppe Mauro Aquino, e del Soprintendente ai Beni culturali e ambientali di Messina, Rocco Giovanni Scimone, e a cui interverrà, in rappresentanza dell’Istituto, il direttore della sede territoriale di Messina-Milazzo, Salvatore Cimino.

Dal progetto interventi informativi/formativi per i rappresentanti per la sicurezza. Obiettivo della tavola rotonda è quello di svolgere un approfondimento accurato sugli strumenti a disposizione per assicurare una informazione efficace e corretta dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, a partire dall’analisi dei rischi la cui percezione, specialmente nelle piccole imprese del settore edilizio e agricolo, risulta ancora sottovalutata. Un incontro, quello al Teatro Antico, che si inserisce pienamente nelle azioni programmate dal progetto, che punta allo sviluppo di attività di informazione e formazione per la diffusione di una buona cultura della prevenzione antinfortunistica.

Teatro e musica per riflettere sulla sicurezza sul lavoro. A completare la serata estiva con le suggestioni emotive dell’arte saranno, alle 20.30, lo spettacolo teatrale tratto dalla piece “Il virus che ti salva la vita” e, a seguire, il concerto “Senza limiti e confini”, con il coinvolgimento di Giulio Rapetti in arte Mogol, storico autore dei testi di Lucio Battisti come guest star della serata.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Fiera Ambiente Lavoro: conoscere tutte le novità della sicurezza

Al via dal 17 al 19 Ottobre 2018 la 18° edizione di Ambiente Lavoro, la fiera dedicata alla sicurezza nei luoghi di lavoro che anche quest’anno si svolgerà a Bologna Fiere in concomitanza con SAIE, Tecnologie per l’edilizia e l’ambiente costruito 4.0.

 

Da oltre 20 anni la manifestazione è il punto di riferimento per gli addetti del settore della sicurezza, l’evento irrinunciabile per conoscere tutti i prodotti, le soluzioni e le ultime novità sulle norme che regolano l’applicazione delle leggi in materia.

 

Anche in questa edizione l’obiettivo è quello di promuovere, diffondere e radicare la cultura della sicurezza nel nostro Paese, creando un punto d’incontro per tutti i professionisti. Dopo il successo della precedente edizione, che ha ospitato più di 150 espositori261 corsi di formazione738 relatori ed oltre 600 ore di formazione anche quest’anno saranno numerosi i momenti dedicati al confronto e alla formazione per gli addetti che operano per la tutela della salute nei lavoratori.

 

In programma oltre 100 appuntamenti tra convegni e seminari che prevedono riconoscimenti di crediti formativi RSPP, ASPP, RLS, CFP, CSP e CSE; l’occasione ideale per aggiornarsi e rimanere in contatto con le aziende leader e le realtà più importanti. Oltre l’ampia offerta formativa Ambiente Lavoro è soprattutto spazio espositivo dove conoscere tutte le novità del mercato, italiano ed internazionale. Per questo vi invitiamo a rimanere aggiornati sulle continue novità in programma sul sito web www.ambientelavoro.it

 

Fonte: puntosicuro.it